Mentre le onde sbattono contro il pontile, facce curiose e divertite si sporgono oltre la ringhiera. In mezzo al mare decine di tavole colorate si contendono l’attenzione della folla. Negli anni 80’ in Italia, grazie all’eco del mito americano tra ritagli di giornale e film cult come “Un mercoledì da leoni” nasce la passione per le onde. Uno stile di vita che oggi coinvolge 30 mila persone tra disciplina, rispetto per gli altri e attenzione per l’ambiente A Viareggio, Francesco, bagnino e Michele, shaper raccontano come la passione per il mare e la ricerca dell’onda perfetta abbia influenzato un’intera generazione. La costa è ravvivata da piccoli rettangoli rossi che si muovono seguendo il vento, la balneazione è sconsigliata.
«Il mare è attivo anche oggi», dice Giacomo in piedi sugli scogli, la tavola salda sotto il braccio, aspettando il momento giusto per buttarsi in acqua. Il telefono squilla, Michele esce dal suo laboratorio: «Facciamo settimana prossima, lunedì e martedì meglio di no, c’è mare», chiude il telefono e ricomincia a lavorare. Fa lo shaper, disegna e crea tavole da surf. Da sempre. Orgoglioso, mostra la foto di un bambino che tiene stretta una tavola dai disegni geometrici rossi, gialli e blu, è la prima che ha costruito: «Avevo undici anni, le linee non sono tanto precise», si giustifica. Spiega che prima dell’avvento di internet in Italia erano arrivate solo alcune immagini, per lo più ritagli di giornali riguardanti pubblicità di marchi americani. Qualche parente si era spinto per lavoro fino in America portando in dono tavole da surf di seconda mano dalla California. Così, era nata una serie di tavole copia, tutte uguali, con cui all’inizio andavano tutti in mare.
«Fare lo shaper in Italia?», sorride, «significa fare un mestiere totalmente fuori dagli schemi, molto spesso è anche difficile farlo capire alla gente, ti guardano magari di traverso e ti dicono: e che lavoro è?!». Molti italiani sono andati all'estero per portare avanti la professione. Anche Michele ci ha pensato tante volte, ma nonostante i viaggi c’è qualcosa che lo riporta in questo pezzo di costa. «Qua è dove è nato tutto, andare via sarebbe come annientare gli anni di lavoro e ricominciare da capo». La storia ebbe inizio negli anni ’80, la Versilia era meta estiva di famiglie, accoglieva giovani imprenditori e qualche intellettuale che si muovevano al ritmo della “Capannina”, la storica discoteca di Forte dei Marmi. Tra i ragazzi del posto nasceva la passione per le onde, come racconta Michele: «Abbiamo cominciato in tanti a fare le tavole, ad andare in mare, sulla scia dei ragazzi di Viareggio, bisogna citarli, sono quelli che da noi hanno mandato avanti tutto».
Giacomo, quel giorno al molo, lo aveva detto prima di sparire tra le onde: «Per parlare di surf, bisogna parlare con Francesco, lavora sul mare, fa il bagnino». Cinquantanni, occhi sorridenti e abbronzatura di chi vive sempre sotto il sole, Francesco parla all’ombra della sua postazione mentre controlla un gruppo di bambini che giocano urlando tra le onde. Racconta della sua adolescenza in Versilia: “Ci sono dei fatti che non conosce nessuno, c’è stato un ragazzo, Renzo, è lui che ci ha detto come costruire una tavola, anche se non ne aveva mai fatto una», sorride.
Francesco, insieme a Michele, compagni di scuola dalle medie fino all'istituto d’arte, costruiscono insieme la loro prima tavola: «Si andò subito in mare a provarla che però non era stata ancora scartavetrata, l’abbiamo sentita addosso tutta la vetroresina, siamo usciti che eravamo due maschere di sangue», dice passandosi le mani sopra il torace. Non sono stati loro i primi a domare le onde in questo pezzo di costa, poco importa, se in un giorno di mare mosso provi a chiederlo alle decine di ragazzi che con la tavola sotto il braccio si lanciano dal pontile, anche loro potranno confermalo: «Sono stati i primi da dove poi è cominciata la storia». «Avevamo dei pezzi di muta da sub, di quelle che si passano sotto con i due bottoni», continua Francesco, « roba che non esiste più, di gomma durissima. Uno andava in mare, poi si levava la muta bagnata e l’altro se la infilava. Siamo andati avanti cosi tutto l’inverno».
L’anno successivo il giro si allarga, il surf stava cominciando lentamente a prendere piede, in molti non capivano, anzi. «I bagnini non erano abituati a vedere con il mare mosso dei ragazzetti con le tavole da surf, quindi erano tutti contrari». Al bagno Pinocchio, dove si è tenuto in seguito il primo surf contest italiano, «ci cacciavano regolarmente e noi andavamo dall'altra parte del porto di Viareggio dove c’era spiaggia libera con la vespa e le tavole portare a braccio, in due senza casco, erano altri tempi». Fare surf in Italia significa anche essere un viaggiatore, sempre pronto a spostarsi quando le mareggiate si fanno consistenti. Negli anni anche il modo di viaggiare è cambiato. «Io sono della generazione dei viaggi su gomma, ho fatto 10-12 volte Biarritz», ricorda Francesco.
«Nell’82 sono andato per la prima volta con mio padre, mio fratello, mia sorella e la mia mamma, avevo 18 anni, non avevo ancora la patente». Con il tempo sono arrivati anche i viaggi in aereo per raggiungere i santuari del surf, come le Hawaii, dall'altra parte del mondo. Una volta tornato a Viareggio confessa che alla prima mareggiata «mi sembrava che ci fosse la pentola dell’acqua che bolliva, e che sono onde queste?». Ma tanto, dice prima di allontanarsi, «nel surf per prendere le onde devi remare, ti devi dare da fare, non è che vengono da sole, se non remi non le prendi». Il sole lascia la linea dell’orizzonte, mentre scende il buio e sulla costa le luci dei bar si accendono. In mezzo al mare c’è chi aspetta ancora di prendere l’ultima onda. Nella zona d’impatto, lì dove frangono le onde.